Duriez colora l’estate italiana coi suoi chef
Noto al pubblico italiano più come “l’americano” del film “Il camorrista” di Tornatore, il pittore racconta la sua avventura artistica al Velino
“Il mio simbolo è la toque di chef. Il mio colore dominante il rosso che richiama le labbra, e quindi il gusto”, al VELINO parla Jean Pierre Duriez, attore, regista e pittore francese classe 1949. “Sono nato a Pigalle, ma mi piace Napoli, e a Trastevere è cominciata la mia vita artistica”. Ad agosto e settembre prossimi l’artista esporrà al Polo d’arte Moderna e Contemporanea di Ferrara 80 opere sul motivo che lo contraddistingue nel panorama della pittura contemporanea mondiale, quello dei “cuochi”. Scrive il suo amico napoletano Pasquale Persico (definito da Duriez “bella capa”, economista napoletano che esercita all’Università di Salerno) che in lui “il Cappello del Cuoco diventa bandiera universale”. Ferrara accoglierà le tele di Jean Pierre Durèz accanto alle opere di Ugo Marano, artista amalfitano scomparso qualche anno fa, nella mostra “La città dei cuochi e la città moltiplicata”, aprendo anche gli spazi della Città del Ragazzo, dove fu ricoverato Giorgio De Chirico (ai tempi in cui la struttura, tra il 1916 e il 1917, fu ospedale militare per curare chi era affetto da nevrosi causate dalla guerra).
Proprio alla metafisica di De Chirico si è ispirata la mostra che due anni fa realizzò Duriez a Ferrara. Ora l’artista francese nella città estense esporrà le sue ultime opere, annunciandole da Napoli, in particolare dalla Galleria Paolo Bowinkel (sita in via Calabritto 1), che è la sua seconda casa, dopo lo studio di Montmartre (“Nell’atelier di Parigi c’è una luce stupenda – racconta Duriez -. È difficile salire, sono sei piani senza ascensore, ma quando ci sto, con due macchinette di caffè posso tirare tutta la giornata”). L’anteprima partenopea è in calendario il 18 maggio, subito dopo il ritorno dalla Cina, dove il pittore è stato invitato per la seconda volta per un progetto di collaborazione artistica istituito tra la Francia e la terra del Dragone. In particolare, nella provincia di Longzhou- Guangxi, dal 26 marzo al 9 maggio, Duriez dipingerà i suoi chef su tele di dimensioni molto grandi, 4 metri per 4. “‘Quando la Cina si sveglierà, il mondo tremerà’, questa celebre profezia, pronunciata da Napoleone nel 1816 e poi ripresa da Lenin poco prima di morire, sembra essersi avverata. Siamo dentro adesso”, osserva Duriez.
Da dove nasce l’amore per la cucina di Duriez? Dall’amore per Napoli e le sue donne, su tutte Marisa Laurito, anche lei brava cuoca e pittrice, con cui l’artista francese è stato legato da una passione travolgente trasformatasi in una bellissima amicizia? Oppure dall’aver frequentato le migliori cucine del mondo quando era regista televisivo per un’emittente francese? O forse semplicemente perché è attratto dal contrasto tra l’allegria che suggerisce un buon piatto e la rigidità che definisce quasi “militaresca” che regna tra i fornelli dei grandi chef che contano su un personale che può arrivare fino a 100 unità ed oltre? Fatto sta che Duriez si sente baciato da Picasso nella sua pittura e che ama la tradizione gastronomica napoletana. Il suo piatto preferito? Pasta e ceci, “ma non so cucinare bene”, ammette. Il suo tratto piace agli chef: il suo “più grande quadro l’ho venduto a un cuoco”, l’accademico della cucina italiana Sergio Corbino lo ha scelto per il suo volume di ricette “da Otto, antica latteria” ed è stato cooptato per i disegni del libro “La Cuisine des Lumieres” di Jean-Pierre Mari sulla cucina settecentesca. Cosa convince della pittura di Duriez? La gioia dell’incontro, l’amicizia, i viaggi, e la sua carriera d’attore, perché tutto ciò confluisce nelle sue opere. Parlare con lui in un italiano che sposa un po’ di romanesco e un po’ di napoletano condito dall’accento francese è coinvolgente e colorato come la sua storia.
“La vita artistica – racconta Duriez- comincia con mia madre che era attrice e mio padre, un disegnatore industriale, dunque non gli piacevano le curve, a me piacciono le curve. Non sono mai stato un grande studente. L’arte mi ha preso più della matematica. Mi sono sempre visto come un avventuriero artistico. Quando avevo vent’anni mia madre, Charline, è morta e nello stesso momento in cui l’ho persa ho incontrato Picasso. Ho sempre pensato che è stata mia madre che gli ha detto: ‘dai una mano a mio figlio’. Ho avuto la forza di andare a disturbare Picasso. A Megève lui usciva per una passeggiata e io l’ho avvicinato per dirgli: ‘Voglio essere pittore’. La svolta nella mia vita artistica arriva con il pittore giapponese Matsui Morio che faceva le Belle Arti a Parigi e mi invitò a vedere che cos’è la pittura. Ha visto subito in me la manualità per disegnare le facce. Poi mi sono sposato giovanissimo ed ho avuto una figlia. Mia moglie sceneggiatrice ha cominciato a fare una bella carriera con film dal basso budget. Ha cominciato a prendere dei premi. Lei è la nipote di Alessandro Fersen che aveva una scuola di recitazione a Roma frequentata, tra gli altri, da Francesca Archibugi, ed io sono venuto qui in Italia per frequentarla. Roma mi da molto di più di Parigi. Ho incontrato Gassman che faceva ‘L’Edipo Re’ all’epoca, poi Adolfo Celi che per me significa Sandokan, e divento grande amico di Claudio Angelini della Rai. M’imbatto in Gianfranco De Bosio, pronto per una tournée teatrale con Lando Buzzanca e Paola Barboni e mi dice: ‘Jean Pierre c’è una bella parte per te’. ‘Voglio farla!’, gli ho detto”.
“Dopo questa tournée teatrale – continua Duriez -, ho conosciuto Tornatore che già faceva il suo primo film con Ben Gazzara e lui ha detto: ‘Jean Pierre c’è una bella parte in questo film dell’americano’. Io sono francese ma lui mi ha visto come americano (forse anche per questo amo Renato Carosone, che mi è stato presentato da Marisa, e ‘Tu vuò fa’ l’americano’ è la mia canzone) e mi sono ritrovato a fare un film dal casting pazzesco. Roma mi è costata un divorzio. Una sera Peppuccio mi porta a prendere un bicchiere all’Hemingway che era un bar famoso, e là mi sono ritrovato quelli del set ed un gruppo di napoletani che faceva un po’ di casino. C’era Arbore che preparava ‘Quelli della notte’. E lì ho conosciuto Marisa che mi ha presentato Renzo, Andy Luotto, grande cuoco, e tutto il gruppo. Mi sono ritrovato tra dei napoletani che mi hanno adottato. Marisa era completamente diversa da mia moglie. Marisa mi ha fatto ridere immediatamente. Siamo rimasti grandi amici, ma non potevamo stare insieme perché io sono molto dolce e Marisa ha bisogno di un maschio forte”. Dopo “Il camorrista” al cinema arriva per Duriez anche “Mignon è partita” di Francesca Archibugi e la scrittura e la regia del western “Billy” per l’Istituto Luce, ma è la pittura che sente reclamare l’attenzione dentro di sé.
“Ad un certo momento, vent’anni fa più o meno, lascio tutto. Lascio la televisione, la regia, il teatro, il cinema, e mi metto a dipingere. La pittura è la mia vita – afferma Duriez -. Convoglio tutte le mie energie nella pittura. Roma mi da l’incontro con Toni Porcella che aveva la Galleria a Piazza di Spagna e mi ritrovo in una delle migliori gallerie della capitale. Da lì parto per New York e Los Angeles, comincio a girare il mondo. Il teatro di Gassman e di Gianfranco De Bosio, il cinema di Cinecittà e l’Istituto Luce sono la mia scuola per diventare pittore”.
“La cucina e le facce delle persone sono ingredienti per il mio piatto che è il quadro – spiega Duriez -. Ho fatto per la televisione francese molti reportage sui cuochi stellati, sui grandi mitici alberghi, tipo l’Excelsior a Roma e il Cala di Volpe in Sardegna. Ho scoperto che i cuochi erano dei personaggi fortissimi che lavorano in cucine dove c’è il grande contrasto caldo/freddo, in un ambiente dal rigore pazzesco. Gli chef sono delle star, come al cinema. Ritraggo le loro divise con le medaglie. I grandi cuochi vivono per le stelle”. Com’è il suo modo di dipingere? “La mia pittura è allegra come Marisa Laurito. Chagall ad un certo punto disse che dipingere non era più un gioco. Al contrario di Chagall io dico che la pittura è per me un gioco. C’è un certo snobismo nella pittura. Io mi chiamo fuori”.
di Ornella Petrucci, fonte ilVelino/AGV NEWS